Il cielo è lì, sembra quasi di poterlo toccare per quanto è bello, azzurro, luminoso, ma se sei una donna quasi sempre ti devi accontentare di guardarlo attraverso una vetrata. Avvicinarlo, respirarlo è un privilegio riservato soltanto ai signori uomini.
È il soffitto di cristallo, bellezza. È il simbolo di quanto uomini e donne vengano considerati in maniera diversa, nel mondo del lavoro. Pensi al cristallo, e immagini che sia fragile e facile da infrangere, ma probabilmente ha ragione Emma Bonino, la settantenne ex ministro agli Affari Esteri, che l’ha definito “soffitto di cemento”. E se lo sostiene lei, inserita nel 2011 dalla rivista americana “Newsweek” nell’elenco delle “150 donne che muovono il mondo”, qualcosa vorrà dire.
Ma che cos’è, esattamente, il “soffitto di cristallo”?
È una metafora che descrive molto bene la disparità di genere in ambito professionale, dove le differenze tra uomini e donne sono ancora molto forti. Lo sono in tanti Paesi, Italia compresa, anzi in Italia più che da altre parti. Si tratta di una barriera invisibile, ma maledettamente reale, che impedisce alle donne di salire ai vertici.
Nel mondo del lavoro, ma non solo. In politica, per esempio, come se una donna non fosse in grado di governare o di fare leggi.
L’Italia da questo punto di vista è davvero arretrata, anche se qualche piccolo segnale positivo c’è stato. Un esempio: con l’ultima tornata elettorale si è giunti a una presenza femminile del 31,4%, quando in precedenza non si era mai superato il 22%. Dice: buon segno, no? Forse, ma se si confrontano le percentuali con quelle dei Paesi dell’area scandinava, dove la presenza femminile nelle istituzioni supera il 40%, in Italia i numeri sono ancora perdenti. E non di poco.
Un altro esempio: in Europa due tra le principali nazioni sono governate da donne, Angela Merkel è cancelliera in Germania, Theresa May è a capo del governo in Gran Bretagna. In Italia un premier donna è al momento inimmaginabile. Eppure negli ultimi 50 anni, su 146 Paesi presi in esame da un report del “World Economic Forum”, 56 hanno avuto una donna ai vertici per almeno un anno. Poco più che un terzo, comunque. E in Germania, per esempio, pur con un cancelliere donna al governo la percentuale degli uomini è del 74%.
Ma esistono ragioni culturali che motivano questa diversità?
Paradossalmente, il primo ostacolo al raggiungimento di posizioni apicali da parte delle donne sembrano essere le donne stesse. Secondo “Leading Women Survey”, sondaggio condotto da Hays, le donne europee mostrano maggiore propensione per i ruoli di middle o senior management, rispetto a quelli dei Ceo: solo 4 italiane su 10 (il 39%, ma in Inghilterra scendono al 36%) dichiarano che si sentirebbero professionalmente appagate se fossero promosse manager. Forse ritengono troppo “difficile” occupare quelle posizioni? In America per spiegarlo è stato coniato il termine “sindrome di Hermione”, ispirato dal personaggio dei libri di Harry Potter: semplificando, donne bravissime a scuola ma troppo ansiose sul lavoro. Se pure fosse così, è chiaro che anche il cosiddetto confidence gap, l’insicurezza di fondo, è un retaggio della sottomissione millenaria.
Perché questa è l’altra faccia della medaglia: in realtà la difficoltà delle donne a salire nella scala gerarchica delle posizioni professionali è dovuta anche a vincoli culturali legati non solo ai valori individuali, ma anche alle culture di genere trasmesse. Gli italiani, per esempio, non sono necessariamente più tradizionalisti o contrari alla parità di genere agli altri europei, ma è la carenza di politiche a sostegno della famiglia (sulle politiche di welfare il nostro Paese è particolarmente arretrato) a limitare un atteggiamento positivo. Molto banalmente la maternità (che per ovvi motivi fisici non riguarda il genere maschile) è spesso considerata un ostacolo dal punto di vista della carriera lavorativa. E il gender gap, in questo caso, è evidente.
Il risultato finale è che secondo il “Gender Gap Report 2017” di JobPricing, in Italia il differenziale in negativo tra le buste paga di una donna e di un suo collega maschio ammonta a quasi 3.000 euro lordi. Per capirci: è come se una donna, rispetto a un uomo, cominciasse ogni anno a guadagnare per il suo lavoro soltanto a partire dalla seconda metà di febbraio. Le retribuzioni sono sbilanciate verso gli uomini per un 10,4%.
L’esempio dovrebbe arrivare da Paesi come l’Islanda, dove dall’inizio del 2018 è diventato illegale il divario di retribuzione tra donne e uomini: secondo la legge, nella terra dei geyser le ditte che impiegano più di 25 persone sono obbligate a ottenere un certificato governativo che dimostri l’uguaglianza retributiva. Senza quella certificazione, scattano multe ingenti. Simbolicamente, il Parlamento islandese ha annunciato la legge l’8 marzo 2017, durante la Giornata mondiale delle donne, come parte di un programma che ha l’obiettivo di sradicare il divario retributivo di genere entro il 2022: l’approvazione è stata trasversale, il programma è infatti sostenuto sia dal governo sia dall’opposizione. Con una motivazione molto semplice: in Islanda quasi il 50% dei parlamentari è di sesso femminile.
Ma forse un giorno a convincere l’Italia sarà il nostro sport nazionale: il calcio. Anche qui, le pioniere sono in Islanda: le giocatrici della Nazionale femminile sono infatti entrate in sciopero chiedendo che il loro stipendio fosse equiparato a quello dei colleghi maschi. E alla fine hanno ottenuto ciò che volevano. La stessa cosa avevano fatto in passato anche le tenniste dei circuiti internazionali: stessi premi degli uomini. La parità passa anche dallo sport.
Federica De Ponti
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